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La speranza è l'ultima a morire - ebook

Wydawnictwo:
Rok wydania:
2019
Format ebooka:
EPUB
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La speranza è l'ultima a morire - ebook

Halina Birenbaum - scrittrice, poetessa, traduttrice - nasce a Varsavia nel 1929. Da bambina vive l'incubo del ghetto di Varsavia e dei campi: Majdanek, Auschwitz, Ravensbrück e Neustadt-Glewe, dove viene liberata nel 1945.

Nel 1947 emigra in Israele, si sposa e diventa madre di due figli. Durante i nemerosi incontri con la gioventù israeliana, polacca e tedesca racconta le esperienze vissute nei campi.

Nel 1967 pubblica il suo primo libro: "La speranza è l'ultima a morire". Viene tradotto in inglese, tedesco, francese, giapponese, ceco, spagnolo ed ebraico. Nel 1991 pubblica il suo secondo libro "Ritorno alla terra degli avi", successivamente: "Ogni giorno conquistanto", "Richiamo alla memoria", tre tomi di poesie "Persino quando rido", "Non si tratta dei fiori", "Come si può spiegare a parole?". E' autrice di numerosi articoli apparsi su prestigiose riviste.

La sua opera è una testimonianza della memoria della Shoah e al contempo la prova dell'indistruttibilità dei sentimenti più umani: la speranza, l'amore per il mondo e per la vita in ogni sua forma.

Nel marzo del 2001 il Consiglio Polacco dei Cristiani e degli Ebrei le conferisce il titolo di "Personalità dell'Unificazione 2001".

Kategoria: Powieść
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ISBN: 978-83-7704-301-1
Rozmiar pliku: 712 KB

FRAGMENT KSIĄŻKI

Dall’autrice

Arrivai in Israele nel momento in cui ebbe inizio la guerra del 1947. Allora tutti nel paese lottavano per la propria esistenza e per quella dello stato appena sorto. Non c’era tempo per raccontare quei ricordi ancora recenti. Ero alle prese con gli impegni quotidiani e con la soddisfazione dei bisogni veniali. Ciò m’inghiottiva talmente come se oltre a quello non conoscessi altro, come se tutto nella mia vita avesse avuto inizio proprio qui. Tutto il passato era precipitato sui fondali della mia anima.

Soltanto il processo Eichmann causò un cambio di rotta nella mia vita. Quando ascoltai per radio la voce dell’accusatore, Gidon Hauzner, non mi separai dall’apparecchio nemmeno per un istante. Lasciai perdere le faccende di casa, trascurando i bambini, svolgevo solo i lavori strettamente necessari… e ascoltavo con estrema attenzione il processo di Gerusalemme. Le mie origini e gli accadimenti della mia vita uscirono dall’anonimato. Ciò mi permise di acquistare la consapevolezza che anche io ero arrivata qui da qualche parte, che avevo avuto una famiglia, che avevo vissuto in mezzo ad altre persone, sebbene ora non ci fosse traccia più né di quelle persone, né di quella famiglia. E all’improvviso, come se fossi di nuovo tornata a casa, per una strana volontà del fato, mi sentii ancor di più me stessa. Tuttavia nelle terribili deposizioni dei testimoni mi mancava qualcosa. Mancava qualcosa di veramente fondamentale: l’atmosfera del terrore incessante di vivere nel mezzo di tutti gli orrori della guerra. Avevo respirato quel terrore nel corso di quasi sei anni, nei quali ogni ora era un’eternità oppure l’ora prima della fine.

Ne parlavo a mio marito di giorno e di notte, fino a quando esclamò: “Scrivici un libro!”. Lo ascoltai stupita e… spaventata. Come descrivere tutto questo? Così tanti fatti, avvenimenti, sofferenze e speranze disperate…

Quando terminai di scrivere mi sentii a meraviglia: mi ero liberata! Era quello che ero in dovere di fare, quello che mi si richiedeva. Avevo la sensazione di vivere il momento più sublime di tutta la mia vita.

I miei cari, il loro passato e il mio passato in mezzo a loro, la loro vita e la loro morte – non appartenevano più soltanto a me. Era come se fossero di nuovo tornati a vivere, come se mi fossero accanto. Chiunque adesso poteva conoscere i loro destini e soprattutto quelli che oggi mi sono vicino: i miei figli, i loro amici, i miei conoscenti. Con questo libro sono arrivata a molti cuori, mi sono fatta amici di diversi paesi: tra gli adulti e tra i bambini, tra gli ebrei e tra persone di altre nazionalità. Mi hanno mostrato la più profonda comprensione e riconoscenza, per le quali non ho abbastanza parole per ringraziarli. Ho capito che dappertutto si trovano persone pronte ad ascoltare e a comprendere, se di fronte a loro apriamo il nostro cuore con onestà e sincerità, mostrando con amore e con fiducia la verità in esso racchiusa. Questa verità verrà accettata, sebbene sia stata difficile e dolorosa, anzi, capita che essa risvegli la fiducia e la fede nella vita.

Desidero ringraziare calorosamente tutti coloro che hanno preso parte alla pubblicazione dei miei ricordi dei tempi dello sterminio nazista.

Halina BirenbaumNacqui a Varsavia.

Abitavo in via Nowiniarska con mia madre, mio padre e i miei due fratelli. Papà era un piccolo sensale, veniva da Biała Podlaska. La mamma si occupava della casa e incrementava il nostro modesto budget con dei lavori all’uncinetto. Veniva da Żelechów. Era una donna insolitamente attiva e saggia, la amavo e la rispettavo più di qualsiasi altro membro della famiglia. Entrambi i miei fratelli all’epoca studiavano ancora: Marek frequentava medicina in Francia, Chilek andava alla scuola di artigianato a Varsavia.

Nel settembre del 1939 compii dieci anni e avrei dovuto cominciare la quarta elementare.

Nell’estate di quell’anno, ascoltando con attenzione i discorsi degli adulti, avevo capito che il paese era minacciato da una guerra di gran lunga peggiore dell’ultima, lanciata con l’utilizzo di una grande quantità di aeroplani, di bombe dirompenti e di gas, terribile e soprattutto in particolar modo per noi, per il popolo ebraico. Non ero in grado di immaginarmelo, ma quel senso avvolgente di timore non mi dava pace. Avevo paura di qualcosa d’indefinito e aspettavo una rassicurazione dalle labbra di mia madre. La sua irrequietezza e la sua tristezza mi dicevano tuttavia di più che le parole di fiducia… la pesante atmosfera in città, i gruppetti di persone inquiete nelle strade che discutevano nervosamente degli avvenimenti politici, delle notizie alla radio… non lasciava presagire nulla di buono.

Scoppiò la guerra! Quel cattivo presentimento era diventato realtà, incubo.

Le squadre di messerschmitt¹ e i bagliori degli incendi offuscarono il cielo sopra Varsavia, ulularono le sirene degli allarmi, fischiando e rimbombando piovvero le bombe, le disgrazie, la morte.

Nei primi giorni dell’assedio di Varsavia, durante le incessanti incursioni aeree correvamo giù nell’atrio, convinti che gli spessi muri e le costruzioni del vano delle scale ci avrebbero riparati dai missili. Abbracciandoci l’un l’altro ascoltavamo quel rombo nefasto, pregavamo, imploravamo Dio di salvarci.

Ma evidentemente quel frastuono aveva assordato anche lui. Le case si sgretolavano in rovine, seppellendo sotto di esse le persone; scoppiavano gli incendi. La morte aveva da lavorare a piene mani.

In occasione della grande festa religiosa ebraica di Jom Kippur i nazisti bombardarono con particolare accanimento e precisione i quartieri ebraici.

Quella notte la Nowiniarska e altre strade caddero preda delle fiamme.

La nostra casa bruciò.

Per strada vedevamo che nessuno di giorno spegneva gli incendi. Non c’era acqua, non c’era cibo, non c’erano forze.

Fuggimmo dalla casa in fiamme, portandoci dietro tutto quello che si poteva trasportare a mano; giungemmo fino alla Świętojerska, da un amico di mio fratello. Lì ci nascondemmo in una cantina affollata. V’imperava un’afa terribile, si respirava a fatica, ma per lo meno non si udivano in maniera così distinta il fragore delle bombe e il rombo degli aerei e già quello mi sembrava una fortuna…

Dopo tre settimane calò uno strano silenzio. Pensavamo di esserci lasciati il peggio alle spalle. Fine dei bombardamenti. Com’eravamo ingenui allora; soltanto l’occupazione mostrò il vero volto del nemico.

Varsavia si arrese. Le colonne dell’esercito tedesco marciavano attraverso la città distrutta ancora in fiamme. Mi sembravano invincibili, sicuri di sé, potenti.

Sulle strade si riversarono folle pallide, stanche; le persone dai rifugi e dalle cantine cercavano con gli involti sulle spalle un qualche angolino nelle case ancora in piedi. Qui e dappertutto i nazisti distribuivano il pane e la zuppa dai calderoni. I varsaviani affamati si accalcavano in file da cui i nazisti tiravano fuori al momento gli ebrei e li picchiavano terribilmente.

E proprio fin dall’inizio cominciarono a suddividere le proprie vittime in “migliori” e “peggiori”, in ariani e semiti, in polacchi ed ebrei – per poi tormentare, depredare e ammazzare sia gli uni che gli altri. Crearono quartieri contrassegnati solo per i tedeschi, quartieri a parte per i polacchi e a parte per gli ebrei. Per evitare di avere problemi nel differenziare gli ebrei dai rappresentanti delle altre nazionalità, ordinarono loro di portare una fascia speciale con la stella di Davide; adesso potevano infierire più facilmente su di loro, la fascia assumeva il valore di un segno distintivo.

I miei genitori trovarono una stanza in via Muranowska in un palazzo al numero 7/9 presso una certa dentista, un’ebrea. In un appartamento di cinque stanze si erano già annidate quattro famiglie (si dormiva anche in cucina). I nostri mobili erano bruciati insieme a tutti i nostri averi in via Nowinarska. Le poche cose che si erano salvate adesso le tenevamo in un baule; era la mamma che ci sistemava sul pavimento, sui materassi strappati alle fiamme. La piccola cucina di argilla, montata in un angolo della stanza, permetteva di cucinare, facendo le veci della stufa durante l’inverno. Era stretto e afoso in quella cucina, nella camera da letto, nella sala da pranzo, nel bagno e nella lavanderia. Abitammo lì in cinque per due anni – fino all’evacuazione.

Per le strade impazzavano i saccheggi e le retate. I nazisti acchiappavano gli ebrei per i lavori forzati in città e fuori città. Gli uomini dovevano rimuovere le rovine, sgombrare le case per i tedeschi, trasportare gli oggetti depredati da loro. Molti di loro non facevano ritorno da quei lavori, si beccavano una pallottola alla nuca oppure morivano a causa delle percosse. Quelli che invece tornavano – testimoni o vittime delle terribili sevizie dei nazisti – risvegliavano un’ansia indescrivibile con i loro racconti. Del resto la stessa vista delle retate era raccapricciante. Più volte osservai dalla finestra il loro svolgimento. I camion comparivano all’improvviso in una strada affollata; i passanti si lanciavano alla fuga. Con il grido “Halt” oppure con un gesto della mano i tedeschi trattenevano gli uomini e li caricavano, spingendoli sui camion e picchiandoli selvaggiamente. Sparavano inoltre sulla folla che si sparpagliava, sui bambini che vendevano in strada dolci, sigarette o fasce e durante la retata se la filavano con la loro “merce” a gambe levate. Sparavano anche nelle finestre degli appartamenti.

Gli abituali improperi e le bestemmie dei soldati tedeschi si confondevano con il grido e col lamento dei feriti e di quelli che erano stati picchiati, con il folle calpestio delle gambe in fuga. La carreggiata e i marciapiedi si coprivano di cadaveri e di sangue. Alla fine i camion stracarichi se ne andavano via, portando con sé il loro bottino vivo.

E di nuovo le persone sgusciavano fuori dai loro nascondigli, i commercianti e i mendicanti tornavano a occupare le loro “postazioni” di sempre – all’apparenza tutto tornava come al solito, fino a quando dal fondo della strada non proveniva un grido che pietrificava dal terrore: “I tedeschi!”

Ciò durò per molte settimane e mesi. Ogni giorno nuove vittime, nuovi ordini e decreti che riducevano i nostri diritti a vivere, a muoverci e a respirare.

Nell’autunno del 1940 i nazisti crearono il ghetto.

Nello spazio di una manciata di strade concentrarono i fuggiaschi ebrei di altre città più piccole e tutti gli ebrei di Varsavia. Separarono il ghetto dal cosiddetto quartiere ariano con un alto muro, al cui sbocco posizionarono delle guardie: gendarmi tedeschi e la polizia ebraica e polacca. Responsabile del ghetto fu designato dai nazisti il Consiglio Ebraico, a loro del tutto sottomesso e cieco esecutore, insieme alla polizia ebraica, dei loro ordini criminali – esso contribuì in grande misura alle sofferenze e allo sterminio degli sventurati abitanti del ghetto.

Qualunque contributo, contingente di merce e di persone destinate al lavoro coatto – in seguito alla morte e alla gassazione – veniva fornito ai nazisti dallo Judenrat², allo stesso tempo i ricchi il più delle volte si riscattavano e al loro posto venivano presi i poveri, i quali non avevano possibilità di riscattarsi dalle mani di quei semiprigionieri e dei loro aguzzini.

Un simile spostamento di persone dava la flebile speranza che lo sterminio non avrebbe interessato tutti gli ebrei, che, chi aveva i mezzi materiali, sarebbe riuscito a sopravvivere alla guerra – e questa convinzione rese insensibili gli uni alle sventure degli altri.

La via Muranowska rimase nel territorio del ghetto e questa “fortunata” circostanza ci risparmiò le sofferenze, che conobbero migliaia di persone che abitavano oltre l’area contrassegnata per gli ebrei. Sotto la minaccia di fucilazione essi dovettero abbandonare le proprie case nel giro di un’ora; potevano prendere con sé solo quello che riuscivano a trasportare sulle proprie spalle – trasferivano i loro averi su dei carretti a mano o su dei passeggini. Molti di loro non sapevano semplicemente dove andare a sbattere la testa. Bivaccavano letteralmente in strada, nei cortili e negli atri, morivano in massa di fame, di sporcizia, di epidemie – per la mancanza delle più elementari condizioni di vita.

Nel primo periodo del ghetto la fame non ci angustiò, poiché i polacchi coi quali papà aveva collaborato prima della guerra ci mandavano del cibo e ci aiutavano in diversi modi. Un aiuto particolare ce lo mostrò di continuo, fino al momento in cui abbandonammo il ghetto, un certo polacco, un conoscente di papà, l’ingegnere Stanisław Strójwąs.

Mio fratello maggiore lavorava come studente di medicina nell’ospedale ebraico, andava anche in giro per le case a fare punture. Quello minore divenne elettrotecnico nel ghetto – e in qualche modo si tirava avanti.

Va da sé che prodotti come la carne, lo zucchero, le uova o il latte non erano per noi accessibili, saziavamo lo stomaco con delle patate, del grano bollito e del pane pieno di paglia trinciata e di rimasugli. Ingrassai con quel vitto, cosa che in seguito mi permise di salvarmi, poiché il mio aspetto era decisamente più maturo e potevo ingannare i boia, nascondendo loro la mia vera età: i bambini – secondo la legge nazista – dovevano morire.

I giorni trascorrevano, pesanti, cupi, ognuno di essi peggiore e più difficile di quello precedente. Gli incidenti e gli eventi si svolgevano così velocemente che a mala pena li potevo cogliere e comprendere. Fino a non molto tempo prima avevamo tutto e io non avevo fatto altro che tormentare la mamma domandandole se le voci sulla guerra fossero “davvero vere”; la mamma mi assicurava di no, chiedendomi di non ascoltare quelle “sciocchezze”… e dopo, durante i bombardamenti, mi stringeva a sé, mi copriva con le sue spalle, col suo corpo, si diceva convinta che presto sarebbe finito…
mniej..

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